18 giugno 2008

Il progetto di FLARE


A Bruxelles 800 giovani di tutto il continente si sono assunti l'impegno di battersi contro il traffico di droga, contro la mafia, contro la tratta dei clandestini, per i diritti umani. Così è nata "Flare", la più grande associazione per contrastare la criminalità organizzata transnazionale. Quei ragazzi hanno messo sul piatto la loro idea di globalizzazione.


(l'Unità, 12 giugno 2008) - Ho visto la meglio gioventù. C’è, esiste in natura. Non è un soggetto cinematografico. Non è una rielaborazione nostalgica della memoria. L’ho vista a Bruxelles nelle quattro giornate (concluse ieri) che hanno segnato la nascita ufficiale di Flare, nome che sta per Freedom, Legality and Rights in Europe. Ottocento giovani di tutto il continente, dal Portogallo alla Russia, si sono trovati nella capitale dell’Unione Europea in rappresentanza di decine di associazioni. E hanno firmato un patto ufficiale nell’aula del parlamento europeo. Si sono assunti l’impegno di battersi insieme contro il traffico di droga, contro la mafia, contro il traffico di minori e clandestini, contro le violazioni dei diritti umani. Dando vita a una nuova, più grande associazione attraverso cui contrastare la criminalità organizzata transnazionale con progetti comuni e con campagne internazionali, che riguardino la più ricca area occidentale o l’area balcanica o caucasica, le democrazie più solide o quelle più esposte ai venti gelidi delle dittature mascherate. Hanno messo sul piatto la loro idea di globalizzazione.
Ottocento giovani carichi di un entusiasmo e di una speranza contagiosi, di una fiducia nella loro possibilità di cambiare il mondo irresistibile, roba da smuovere le corde riposte dell’impegno civile anche nel più compassato osservatore o nel più consumato professionista della politica. Li ho osservati e seguiti con l’attenzione dovuta all’importanza dell’appuntamento. E affermo con certezza di non avere mai assistito in vita mia a nulla del genere. Non è certo la prima volta che dei giovani si danno convegno giungendo da tanti paesi. E’ la prima volta, però, che lo fanno con questo obiettivo. Traducendo in impegno ufficiale, in una sede politica per eccellenza, la forza di un movimento di opinione e di azione che nasce e sta tutto fuori dalla politica e dal suo linguaggio. E’ la prima volta che tanti giovani in rappresentanza di decine di paesi arrivano non sull’onda di una contestazione ideologica ma sulla spinta di valori civili, per costruire con il loro impegno diretto un mondo diverso. E di quel mondo, di ciò che essi vogliono e sono, hanno dato un grande spettacolo quotidiano, attraverso le parole dette o gli atti compiuti ma anche con i gesti e i comportamenti più minuti e spontanei. Provo a sintetizzare. Non sono per nulla televisivi, nel senso di figli della cultura televisiva, anzitutto. Quando il grande schermo delle aule parlamentari rimandava l’immagine di qualcuno di loro, nessuno - vedendosi - se ne compiaceva e si faceva tentare dal sorriso di occasione a cui siamo stati ammaestrati dai talk-show. Molto spesso si coglieva il sorriso imbarazzato e perfino pudico rivolto al proprio vicino di banco. Nessun esibizionismo tipico di chi “deve farsi vedere”, insomma. Ma tuttavia esperti di comunicazione. Di comunicazione informatica, a livelli stratosferici. E di comunicazione visiva, in cui sono efficacissimi, si tratti di mostre, di documentari, di scenografie, di spot pubblicitari. Accomunati dalla voglia di conoscere “l’altro” e dall’amore per la diversità. Di più, dalla fiducia nella diversità. Nessuno si crogiolava nella somiglianza (di esperienze e di lingua) della propria nazionalità, ma tutti si cercavano, si mescolavano incessantemente usando un inglese dalle mille sfumature. Sul campo di calcio che stava davanti alla grande foresteria affondata nei parchi fuori Bruxelles, e in cui si tenevano le adunate conviviali, era tutto un brulicare di incontri e di risate, di giochi e di suoni. E in mezzo alle centinaia di ragazzi, anzi, con loro, giocavano allegri come non mai i bambini rom (sì, rom) che un’associazione torinese si era portata dietro nell’ambito di un patto di cittadinanza a cui lavora da mesi. Non era lo spettacolo sempre meraviglioso della gioventù a conquistare l’osservatore, ma la consapevolezza che quella fantastica rappresentazione di allegria, che aveva le sue chiassose code notturne, andava di pari passo con l’impegno sui temi più duri e pericolosi che il mondo ci offra oggi. Faceva impressione, direi tenerezza, il contrasto tra i volti innocenti e gentili dei giovani e giovanissimi e le immagini che abbiamo metabolizzato del traffico di droga, della ferocia dei casalesi o dei corleonesi o dei clan albanesi, della bruttura disumana del traffico dei clandestini o delle prostitute. E tuttavia quel contrasto, che poteva consegnare di primo acchito (e di diritto) la patente di generosi illusi ai ragazzi presenti, era -in realtà- proprio ciò che meglio spiegava la radicalità della diversità e della scelta di battersi. Più alta la sensibilità e la civiltà, più alto e insanabile il conflitto con quel mondo.
Un mondo affrontato combattivamente in decine di incontri, di tavole rotonde e di seminari: sui diritti umani, sui beni confiscati alla mafia, sulla xenofobia, sulla memoria delle vittime, sull’informazione (lucidissimo l’intervento della esponente di un movimento giovanile russo), sulla cittadinanza, sul traffico di armi.
E un’altra cosa sorprendeva l’osservatore. Come la gioia esplosiva di trovarsi insieme a fare qualcosa di utile e giusto coincidesse con uno stile di vita estremamente sobrio. Stabilito per l’occasione, forse, e oggetto anche di auto-ironie. Ma era davvero impossibile non riflettere sulla freschezza di quella specie di vacanza spartana e sugli standard di consumi vissuti come necessari (e comunque mai sufficienti) da altri coetanei in altri contesti, più lontani o totalmente lontani da ogni forma di impegno. Certo l’organizzazione dell’evento era stata rigorosamente al risparmio. Ma era come se tutto avesse una sua spontanea coerenza, sublimata nella felice frugalità dei “pasti” che ho visto consumare da don Luigi Ciotti, che con Libera è stato l’artefice primo e grande di questa nuova esperienza. E’ stata demagogia mentale riandare subito ai robusti “catering” e alle “pause caffè” senza i quali ogni assemblea o convegno di partito sembra una cosa da pezzenti? Ed è stata demagogia mentale individuare tra i giovani italiani presenti quali sarebbero stati degni di sedere in parlamento per meriti conquistati sul campo anziché nelle segreterie parlamentari o di partito, avendo la certezza -fra l’altro- che loro almeno i giovani li avrebbero rappresentati sul serio?
In ogni caso, al di là di queste notazioni di costume e di cultura, qualcosa di grande è accaduto il mattino di martedì. Quando, dopo avere ascoltato le parole del presidente del parlamento europeo e del commissario europeo alla giustizia, e dopo avere suggellato con una standing ovation il discorso di don Ciotti, i giovani hanno firmato la nascita di Flare al suono di “Born to run” di Bruce Springsteen. Lì i fortunati che c’erano hanno avuto la precisa convinzione di essere testimoni di un passaggio storico. Sono stati chiamati a sedere in circolo i rappresentanti di ogni nazione, ogni nazione un giovane. Poi i rappresentanti hanno firmato in contemporanea il testo dell’accordo, ciascuno su un proprio foglio. Quindi tutti hanno sventolato il testo da loro firmato voltandosi verso le centinaia di compagni disposti nell’emiciclo. E lì l’applauso festante che si è scatenato ha commosso tutti, compresi i parlamentari italiani presenti. Non capita spesso di vivere questi momenti. D’altronde la storia si fa anche quando tutti sono voltati da un’altra parte, anche quando nessuno se ne accorge. La meglio gioventù europea, che sull’informazione ha avuto molto da ridire, l’ha già imparato. Non credo che si fermerà per questo.

On. Nando Dalla Chiesa

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